#3/2014 – MARINO REGINI con Gabriele Ballarino

Nonostante la varietà dei temi di ricerca considerati, vedo una continuità tra queste diverse fasi della tua carriera. Mi sembra infatti che tu ti sia sempre occupato di cose di cui avevi anche un’esperienza diretta…

regini 5Sì e no… Questo vale sicuramente per l’ultima fase – quella dello studio dei sistemi universitari – e in parte per quella iniziale – quella di ricerca sui sindacati e sulla concertazione-. Per quanto riguarda invece la fase di studio della political economy ovviamente non avevo esperienza diretta, lì è stata proprio la scoperta di questo approccio analitico che è molto diffuso in America, dove vi fanno riferimento politologi, sociologi, storici. Ecco, questa è un’altra cosa che io ho sempre invidiato tantissimo agli Stati Uniti: nonostante i loro dipartimenti di sociologia o di scienza politica siano enormemente più avanti dei nostri disciplinarmente, hanno però avuto un’apertura interdisciplinare, persino fra gli economisti, che noi non abbiamo mai avuto… Ho dimenticato di dire che nel ’94 sono stato sei mesi in mezzo agli economisti, invitato alla Sloan School del M.I.T., dove c’erano Michael Piore, Tom Kochan, Paul Osterman, Richard Locke (che peraltro è un politologo), e anche lì ho trovato un approccio interdisciplinare e un’apertura al di fuori dei propri confini davvero straordinari. Cosa che ho ritrovato con grande difficoltà qui in Italia, tranne che per l’esperienza di Stato e Mercato, che comunque resta una rivista, non una realtà accademica…

Hai una spiegazione del perché nell’università italiana manchi questa mentalità che trascende i confini disciplinari, tipica invece dell’accademia americana?

 Credo che la spiegazione sia la stessa che dà Michele Salvati della ragione per cui, tra gli economisti, soltanto quelli più anziani accettano un approccio interdisciplinare: devi essere molto consolidato nel tuo campo prima di lanciarti al di fuori dei confini della tua disciplina. O meglio, si può essere interdisciplinare in due modi: o perché sei molto riconosciuto, hai un’alta reputazione nella tua area disciplinare e ti senti abbastanza sicuro da poterti spingere al di fuori; oppure, in senso opposto, perché non riesci ad avere molto riconoscimento nella tua disciplina e quindi vai a cercare riconoscimento in altre discipline. Per esserlo nel primo modo, devi essere in qualche misura già “arrivato”: questa è la ragione per cui gli economisti accettano l’interdisciplinarità soltanto a un certo stadio della loro carriera. Quello che Salvati dice giustamente per le persone, secondo me vale anche per le istituzioni: nel senso che un dipartimento come quello di Harvardregini 10 può permettersi di fare un sacco di iniziative interdisciplinari perché comunque è Harvard! Un dipartimento italiano, invece, continua a doversi accreditare innanzitutto come dipartimento nella sua disciplina. Credo che la spiegazione sia quella…

Ho fatto un’altra esperienza significativa da questo punto di vista. Il Social Science Research Council americano, che dà borse di studio a dottorandi americani di storia e scienze sociali per fare ricerca in Europa, costituì un Committee on Western Europe, che negli anni ’90 si riuniva periodicamente per valutare le proposte di ricerca dei dottorandi. Del Committee facevano parte sociologi come me ed Esping-Andersen, politologi come Peter Lange e Peter Hall, economisti come Barry Eichengreen, e poi storici e antropologi. Ci riunivamo tutti insieme due volte l’anno per le valutazioni, e questo era un altro modo per valorizzare l’approccio interdisciplinare. Il Social Science Research Council considerava cioè normale mettere insieme scienziati sociali, storici, economisti, e far valutare ad ognuno anche i progetti delle altre discipline. Addirittura mi capitò di dover valutare delle proposte di tesi di storia dell’arte!

A proposito di interdisciplinarietà, non abbiamo ancora parlato della SASE…

Giusto, hai ragione, vedi di quante cose importanti dimentico di parlare?! E’ una storia esemplare: la Society for the Advancement of Socio-Economics  è un’associazione tipicamente multidisciplinare, fondata nel 1988 da un sociologo come Amitai Etzioni, di cui avevo frequentato alcune incomprensibili lezioni quando ero alla Columbia – incomprensibili perché lui aveva un accento ebraico-tedesco spaventoso! Per un po’ la SASE visse come associazione diretta da studiosi di secondo piano, marginali nelle rispettive discipline.

regini 7_bisNel 1996 però diventa presidente Rogers Hollingsworth – un tipico esempio di eccellente studioso interdisciplinare, non saprei neanche se definirlo sociologo, politologo o storico, perché è un po’ tutte e tre le cose – che riesce a convincere Wolfgang Streeck a prendere in mano l’associazione e gli fa anche il mio nome, quello di Robin Stryker, e altri. Streeck, oltre che avere un’ottima reputazione sia in America, dove ha insegnato a lungo alla University of Wisconsin, Madison, sia in Germania, dove è direttore del Max-Planck di Colonia, ha un grande asso nella manica per la SASE: anni prima alla Columbia è stato allievo di Etzioni, il quale lo adora e gli lascia mano libera di rivoluzionarla completamente…  SASE Aix-en-Provence - 4 presidents in a row

Così, nel giro di due o tre anni, la SASE passa dall’essere un’associazione interdisciplinare ‘del secondo tipo’ nel senso che dicevo prima, cioè composta da persone che cercavano una platea interdisciplinare perché eccentrici o marginali nella propria disciplina, all’essere un’associazione di grande livello scientifico, in cui si riesce a tirar dentro studiosi di primissimo piano come Colin Crouch, Ronald Dore, Robert Boyer, Richard Whitley, David Stark, Kathy Thelen, Jonathan Zeitlin, Patrick Le Galés.

SASE 2012 Patrick & Ron with Marino

Nel 1998 io propongo due nuovi research networks che hanno subito un grande successo: quello su Industrial relations and political economy, che per un po’ coordiniamo Jelle Visser ed io prima di passarlo a Lucio Baccaro; e, affidandolo a David Marsden, quello su Labour markets, education and human resources. Insomma, la SASE diventa un’associazione interdisciplinare ‘del primo tipo’, in cui ci si sposta da un generico approccio comunitario, che era il leit-motiv di Etzioni e che raccoglieva esponenti marginali delle varie discipline, a un’associazione di political economy molto seria e riconosciuta. Anche la connessa rivista Socio-Economic Review viene presa in mano con grande piglio teutonico da Streeck, che la fa diventare piano piano la miglior rivista internazionale di sociologia economica. SASE_MIT_2012_Mari Sako_Susan Helper, Suzanne Berger, Thomas Kochan, Marino Regini, Ida Regalia @SASE

Io sono stato eletto presidente nel 2002-2003 e ho tenuto il mio presidential address a Minneapolis. Per me questa esperienza è stata, a livello internazionale, un po’ l’equivalente di Stato e Mercato in Italia: il progetto di sviluppo della political economy più gratificante e continuo nel tempo. Inoltre, un po’ come in Stato e Mercato, nella SASE c’è anche un tratto di comunità molto gradevole, cioè ci si rivede tutti una volta all’anno. Fino appunto al convegno SASE che abbiamo ospitato l’anno scorso a Milano in Statale e in cui avete organizzato una magnifica festa a sorpresa per il mio pensionamento…

What’s next?

 Who knows? Per ora sto lavorando sulla governance dei sistemi di istruzione superiore europei e sui rapporti fra università e sviluppo territoriale, poi vedremo: non mettiamo limiti alla provvidenza!

marino 13

L’intervista è stata trascritta da STEFANO CANTALINI.

Le didascalie delle immagini che la accompagnano si trovano alla pagina seguente.

 

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