#3/2014 – MARINO REGINI con Gabriele Ballarino

regini 6E l’interesse per la politica continuava in questo periodo?

Sì, ma molto meno, perché il movimento operaio si era – come ben sappiamo -“istituzionalizzato”. Con i sindacati mantenevo dei rapporti, ma non particolarmente entusiasti, come tutti quelli che avevano in qualche modo avuto la delusione del dopo-autunno caldo del ’69…

Ma il marxismo che fine aveva fatto?

Il marxismo si era perso un po’ per strada, come per quasi tutti in quell’epoca. Continuavamo a mantenere una identità di sinistra, ma di fatto socialdemocratica, riformista. Eravamo di sinistra, ma il modello era molto chiaramente la Svezia, il modello svedese o nordico, come vogliamo chiamarlo…

Prima facevi riferimento a due grandi fonti di ispirazione intellettuale, due grandi momenti formativi: il primo è rappresentato dall’incontro con Pizzorno, qual è stato il secondo?

Il mio secondo importante momento formativo è stato nel ’78-’79, quando venni invitato al Center for European Studies di Harvard. Lì Peter Lange, Chuck Sabel, Gøsta Esping-Andersen e altri avevano deciso di mettere in piedi una ricerca comparata sui movimenti operai. Sapevano che io avevo lavorato con Pizzorno e che avevo studiato in università americane (Rosemary Taylor, che faceva parte di quel gruppo, era stata mia compagna di corso a Berkeley) quindi mi invitarono ad una conferenza e, successivamente, a trascorrere un anno al Center come visiting. È stato un periodo straordinario, molto più importante che non i due anni che in America avevo già fatto da studente, perché lì veramente ho vissuto la communitas universitaria americana come me l’ero sempre immaginata. Tra l’altro allora il Center era in una palazzina più piccola di adesso, non pretenziosa: incarnava la parte più sofisticata di Harvard, che praticava l’understatement. Eravamo una trentina di studiosi di diverse discipline, sociologi, politologi, storici e qualche economista. Si studiava, ma soprattutto c’erano una serie di momenti legati ai riti del lunch insieme, del caffè insieme, in cui si discuteva continuamente di un libro, di politica, eccetera. Ma soprattutto, al Friday lunch, c’era un’istituzione importantissima: il seminario settimanale State and Capitalism in the Twentieth Century, a cui venivano invitati a parlare tutti i sociologi, politologi, economisti e storici, americani e non, che si occupavano di temi di political economy. Così il mio interesse di ricerca, che nella prima fase della carriera era fondamentalmente di sociologia del lavoro e di sociologia dei conflitti, si apre allo studio dello stato e alla political economy. Al Center c’erano sociologi come Theda Skocpol e Chuck Sabel, politologi come Suzanne Berger e Peter Hall, storici come Charlie Maier, economisti come Franco Modigliani, Ezio Tarantelli e Michael Piore. Lì, appunto, è nato non solo il mio interesse per la political economy, ma anche il mio profondo attaccamento a un modo interdisciplinare di discutere e di lavorare, perché mi accorgevo che spesso imparavo molto di più da storici, politologi ed economisti che si occupavano dei miei stessi temi che non dagli altri sociologi. È stato un periodo di formazione straordinario, che poi si è ripercosso su tutto il decennio successivo, perché per tutti gli anni ’80 ho continuato a mantenere forti rapporti con loro. Mentre ero lì, inoltre, ero stato invitato alla Cornell da Sidney Tarrow, così come in varie altre università. Mi ero creato una rete ampia che è rimasta attiva per tutti gli anni ’80 e ’90. C’era il Council for European Studies che tutti gli anni organizzava una Conference of Europeanists – che esiste ancora – dove ci si rivedeva, si progettavano convegni insieme, riunioni e così via.

Anche la conoscenza di Gøsta Esping-Andersen risale a questo periodo?

regini 9Gøsta l’ho conosciuto lì, certo, dove insegnava. Ho conosciuto lì tutti i miei migliori amici americani: oltre a Gøsta, Peter Lange, Samuel Valenzuela, Peter Hall… Quindi, direi, quello è stato il secondo grande momento formativo, che ha anche condizionato i miei interessi di ricerca. Ho comunque continuato a lavorare anche sui sindacati, perché subito dopo Lange e Tarrow mi avevano chiesto un pezzo sulle labour unions[6] per un volume sull’Italia, ma soprattutto perché avevo conosciuto Philippe Schmitter, che mi aveva introdotto al tema del neocorporatismo e della concertazione, che negli anni ’80 e ’90 diventa il mio cavallo di battaglia, su cui ho scritto i miei articoli più noti e citati. Appena gliene parlai, Gino Giugni mi chiese subito di introdurre questo tema anche in Italia con un articolo per la sua rivista[7]. Poi nel 1983 John Goldthorpe decise di coordinare un lavoro sulla political economy europea, uscito in seguito come Order and Conflict in Contemporary Capitalism, al quale mi invitò e dove, sempre sul tema della concertazione, ho scritto uno dei miei articoli forse più ‘pizzorniani’: Le condizioni dello scambio politico[8]. ‘Pizzorniano’ perché era un tentativo di fare un’analisi il più possibile sofisticata sulla logica della concertazione, andando oltre le analisi più scontate del fenomeno… Fra l’altro fui invitato da Schmitter e Streeck a presentarlo alla Summer School che avevano organizzato nel 1983 all’Istituto Universitario Europeo di Firenze ed ebbe un grande successo. Su questo tema ho continuato a scrivere molto anche in tempi più recenti, fino al mio articolo Between De-regulation and Social Pacts del 2000[9], che di fatto chiude la stagione dei miei lavori sulla concertazione (anche se sui patti sociali ho pubblicato qualche saggio anche in seguito) e che resta il mio articolo più citato in assoluto.

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 Su questi temi è anche I dilemmi del sindacato, pubblicato nel 1981[10]

 Si tratta di un volume che si basa su ricerche precedenti; però durante gli anni ’80 realizzo una serie di ricerche in larga misura macro e non più a livello micro, che sfociano nel mio libro forse più significativo, Confini mobili[11], pubblicato nel 1991 in italiano per il Mulino e nel 1995, in una versione inglese modificata (eliminando due capitoli sul caso italiano e aggiungendo un capitolo di conclusioni), da Cambridge University Press[12]. A proposito di sindacato, un’altra esperienza molto importante è stata quella all’Ires Lombardia[13]. Nei primi anni Ottanta, la Cgil voleva affidarsi a un intellettuale d’area ma non ‘organico’ (per dirla gramscianamente), per dare maggiore visibilità e reputazione scientifica al suo istituto di ricerca. Secondo me in parte giocava anche la competizione con la Cisl, che da tempo aveva la Scuola di Firenze diretta da Guido Baglioni, in cui circolavano molti intellettuali (io stesso vi ero stato invitato varie volte a tenere delle lezioni). Sebbene in modo critico, ero rimasto vicino al sindacato e così nell’83 Bruno Trentin mi propose la presidenza dell’istituto Ires Cgil della Lombardia, prima diretto da un sindacalista, trasformandolo in fondazione, quindi con una sostanziale autonomia dalla Cgil. La sua indicazione, molto schematicamente, fu: “Fate ricerche su temi che interessino al sindacato, ma in totale autonomia e senza dover rendere conto al sindacato”. Soltanto Trentin,  intellettuale aperto, poteva avere questa visione! Io accettai e chiesi a Ida Regalia di fare la vicepresidente e a Sandro Arrighetti, un economista, di fare il direttore. Insieme lanciammo una serie di ricerche che sono state tasselli importanti, che poi ho in parte recuperato anche in Confini mobili. All’Ires facemmo la ricerca annuale sulle relazioni industriali in azienda, quella sulla de-regolazione del mercato del lavoro con Esping-Andersen[14], un convegno e libro sulla flessibilità[15], la ricerca e volume con Chuck Sabel sulle strategie di riaggiustamento industriale[16]. Sempre appoggiandomi organizzativamente all’Ires pubblicai anche il libro con Peter Lange su sregini 8tato e regolazione sociale in Italia[17], nato da un mega-convegno tenuto a Bellagio a cui Peter e io avevamo invitato praticamente tutti i sociologi e politologi italiani che si occupavano di questi temi, oltre a numerosi americani (la foto ricordo del convegno accompagna l’intervista a Gian Primo Cella su ELOweb ).

 

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