#3/2015 – CHIARA SARACENO con Manuela Naldini & Sonia Bertolini

In che misura occuparti di temi a lungo considerati di confine o marginali, ti ha consentito di adottare un approccio “aperto” alla contaminazione con discipline “cugine” (storia, psicologia, economia, demografia, antropologia), nonché di dialogare con tradizioni di studio diverse, dalla ricerca biografica (qualitativa) alla più recente ricerca quantitativa anche longitudinale?

Proprio la mancanza di una tradizione di studi consolidata su questi temi, soprattutto, ma non solo, in Italia, dava una certa libertà nel cercare sia approcci e letterature, che metodi di ricerca. Il fatto di essere, all’inizio della mia carriera, una delle poche studiose/i in Italia ad occuparsi di famiglia in termini storico-comparativi ha sollecitato l’interesse per il mio lavoro di storici e demografi, in Italia e all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. img058Questo ha arricchito non solo le mie reti intellettuali di riferimento, ma anche i miei orizzonti conoscitivi. Analogamente, e forse ancora di più, l’occuparmi di donne e questioni di genere nel periodo in cui, accanto ad un attivo movimento delle donne a livello internazionale, si stava formando anche una attiva e articolata, multidisciplinare, comunità scientifica mi ha messo in contatto con approcci disciplinari, metodologici e anche teorici diversi. E’ una caratteristica che credo di condividere con molte studiose della mia generazione: non ho mai privilegiato esclusivamente un metodo su un altro, dipende dalla domanda conoscitiva. E spesso ho cercato di intrecciare più approcci. Devo aggiungere che io non ho molta competenza nei metodi quantitativi, anzi pressoché nulla sul piano pratico: in questo ho dovuto sempre affidarmi a coloro, più competenti di me, con cui ho lavorato; credo però che le mie domande di ricerca abbiano fornito qualche sollecitazione a chi quei metodi sa usare.

Per me è stato inoltre molto utile, sia sul piano dell’approccio multidisciplinare sia su quello dei metodi, l’essere coinvolta in organismi come la Commissione povertà, l’Osservatorio Europeo sulle politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, il Working Party on Social Policy (OCSE) e il Social Protection Committee della Commissione europea, dove per un periodo ho rappresentato l’Italia. Queste esperienze, oltre a consentirmi uno sguardo dal di dentro sui processi di formazione delle decisioni politiche, mi hanno sollecitato ad una maggiore attenzione al rapporto che c’è tra la qualità dei dati e non solo la ricerca, ma la definizione e il monitoraggio delle politiche. Una esperienza simile, anche su scala più piccola, mi è stata consentita dalle richieste di consulenza sulle politiche sociali da parte di amministrazioni pubbliche, nella collaborazione con l’ISTAT per la messa a punto delle indagini Multiscopo e, più recentemente, per la costruzione degli indicatori per definire il Benessere equo e sostenibile (BES).

Riflettendo retrospettivamente, come caratterizzeresti la tua biografia intellettuale?

Credo che la condizione di “straniera” ben sintetizzi quanto mi è capitato. Sono a lungo stata, diciamo, “sulla porta”, in uno stato né di appartenenza né di non appartenenza a una categoria, a un gruppo, ad un settore disciplinare, ad un approccio.GEMELLE Come donna mi muovevo in un mondo di soli uomini; ero sposata quando non era di moda farlo dentro al movimento femminista; nel movimento femminista ero percepita non come una di loro, ma al margine; ho avuto figli quando dentro al movimento la maggior parte o era troppo giovane per pensarci, o li aveva già avuti e rivendicava l’importanza di dedicarsi ad altro; alla riscoperta della maternità da parte del movimento, io avevo le figlie già grandicelle; tra i sociologi mi occupavo di temi “marginali” rispetto a quelli ritenuti importanti, ed insieme rischiosi rispetto all’ideologia dominante, anche nell’accademia; sono stata spesso l’unica, o la prima donna in contesti tutti maschili. Nei contesti internazionali ero la studiosa meridionale, appartenente ad un paese cui si riconosceva un grande passato sul piano intellettuale, ma che nel presente era considerato, se non del tutto irrilevante, marginale, cui corrispondeva anche una arretratezza nei settori sociali di cui mi occupavo (la posizione delle donne, la famiglia, il sistema di welfare).

2008-12-22 21.51.25Il dover in qualche modo sempre legittimarmi mi ha dato una dose di aggressività che mi rende forse anche un po’ antipatica, ma che mi ha anche consentito una certa libertà interiore. Sapere di essere sempre sotto osservazione e guardata di sottecchi, potremmo dire, mi ha spinto a fare sempre meglio le cose di cui mi occupavo, a non lasciare nulla di scontato e a difendere le posizioni che di volta in volta andavo assumendo. Inoltre, sapere di fare delle cose che comunque non erano considerate “importanti” mi ha reso un po’ più laica verso le mie stesse attività di ricerca, consentendomi di avere libertà anche dal mio stesso lavoro e dai miei stessi interessi, insomma consentendomi di guardare al mio lavoro con passione, ma anche con un utile distacco.31 Benché abbia pagato prezzi anche elevati per questa mia condizione di “straniera”, tutto sommato direi che sono anche stata molto fortunata, negli incontri che ho fatto, nelle occasioni che mi sono state date, inclusa l’ultima, quella del Wissenschaftzenntrum Berlin für Sozialforschung, che mi ha permesso di passare gli ultimi cinque anni della mia carriera professionale formale dedicandomi solo alla ricerca in una città così interessante come Berlino – e senza neppure saper parlare il tedesco!

[L’intervista riprende quella curata da M. Naldini, che si può leggere nella sua interezza nel numero n. 5/2015 della rivista Sociologia italiana – AIS Journal of Sociology. La versione originaria è stata ridotta e riadattata dalla redazione ELOweb, integrandola con alcune domande curate da S. Bertolini].

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