#3/2015 – CHIARA SARACENO con Manuela Naldini & Sonia Bertolini


Come studiosa donna, cosa ha significato occuparsi negli anni ’70, periodo di forte fermento politico e sociale, di un tema considerato “marginale” dai sociologi più influenti, nonché in contrasto con l’approccio dominante, ossia quello cattolico?

SARACENO NALDINI MANUALEAffrontare temi sensibili come la famiglia e i rapporti uomo-donna essendo una donna, laica e di sinistra in una società, e in una accademia, relativamente chiusi non mi ha facilitato la carriera. Una delle poche donne in un ambiente prevalentemente maschile e maschilista, mi occupavo di cose di poCOPPIE E FAMIGLIEco conto, a detta degli altri, più influenti e più riconosciuti sociologi, quali la famiglia e le condizioni delle donne, invece che di classe e delle “classiche” disuguaglianze, o delle grandi teorie. A livello nazionale, i sociologi avevano iniziato ad  organizzarsi in modo informale. Eravamo un gruppo di giovani, per lo più di sinistra, che in seguito avrebbero concorso alla creazione dell’Associazione Italiana di Sociologia (AIS). Ricordo che quando c’erano le riunioni dei giovani sociologi, cui partecipavano persone che poi sarebbero diventati molto importanti – Bianca Beccalli, Laura Balbo, Massimo Paci, Franco Rositi, Gian Primo Cella, Guido Romagnoli – io mi sentivo sempre come una intrusa, guardata quasi dall’alto al basso: loro si occupavano di cose serie, di classi, di economia, eccetera. Io invece di questioni “private”, politicamente e socialmente “irrilevanti”. Eppure, nonostante il complesso di inferiorità, ho tenuto duro e non me ne sono mai pentita! img057Tra l’altro, proprio il mio approccio interdisciplinare e di genere allo studio della famiglia mi ha consentito nel tempo di interagire anche con studiosi internazionali, in sociologia, ma anche in storia e più tardi economia. Nel frattempo, anche alcune/i di coloro che allora si occupavano d’altro hanno iniziato a occuparsi di famiglia e/o di rapporti di genere…

Le cose non sono state più semplici nel rapporto con il movimento delle donne. All’inizio le difficoltà sono nate dal fatto che per la maggior parte erano più giovani di me, studentesse, mentre io, per quanto precaria, ero dall’aGENERE SARACENOltra parte della barricata. Inoltre, proprio perché lavoravo all’università, facevo una cosa che era del tutto disdicevole per quei tempi dentro al movimento delle donne, ovvero pubblicavo col mio nome, invece di celarmi/annullarmi dentro al movimento. Per di più, nonostante i miei testi avessero una ispirazione “militante”, ambivano pur sempre ad essere testi di sociologia, argomentati sia empiricamente che teoricamente, non dei pamphlet. Più tardi le difficoltà sono intervenute sul piano teorico, rispetto al femminismo della differenza da cui io ho preso sempre e subito le distanze. Malgrado queste difficoltà e nonostante non abbia mai realmente militato in nessun gruppo, il femminismo è stato per me una importante esperienza formativa, sul piano intellettuale oltre che umano. Certo non mi colloco tra le ” femministe pentite”.

Come arrivi ad occuparti anche di welfare e poi di povertà?

IL WELFARELe “donne” le ho scelte io, la “famiglia” e “il welfare” sono arrivai come logica conseguenza. Per noi che partivamo dal punto di vista delle donne, infatti, occuparci di famiglia ha significato inevitabilmente occuparci di welfare state, analizzato non solo come risorsa ma anche come basato su impliciti o espliciti assunti relativi al modo di funzionamento della famiglia e della divisione di genere del lavoro. Questa è stata a lungo proprio una, positiva, specificità della sociologia della famiglia italiana e forse  anche della sociologia dei rapporti di genere italiana, in larga misura per merito anche di Balbo, prima che divenisse un approccio standard anche in altri paesi. Simmetricamente, e proprio per questo, l’attenzione per la famiglia e i rapporti di genere ha dato un’impronta specifica agli studi italiani sul welfare state, prima che Gøsta Esping-Andersen indicasse nella famiglia uno dei tre ambiti che costituiscono il campo in cui si costituisce un regime di welfare.   

SARACENO NEGRI POVERTA'La “povertà” invece, altro grande tema di cui mi occupo e per il quale sono riconosciuta, mi è arrivata del tutto inaspettata: si potrebbe dire che sia stata la povertà a scegliere me, e all’inizio anche per ragioni, diciamo improprie. Nel 1984 mi fu chiesto di far parte della prima Commissione povertà, presieduta da Ermanno Gorrieri [4]. La presenza in Italia di uno dei movimenti di donne più attivi in Occidente, ed anche più impegnati sul piano sociale, aveva indotto il governo socialista, presieduto da Bettino Craxi, a inserire non solo una donna (in effetti eravamo due, l’altra era l’economista Carmela d’Apice, che di povertà e disuguaglianza si occupava da tempo), ma quello che allora si chiamava “il punto di vista delle donne” in una Commissione che aveva il compito di occuparsi di povertà; tanto più che in quegli anni si iniziava a parlare, a livello internazionale, di femminilizzazione della povertà, ovvero di una sovra-rappresentazione delle donne tra i poveri. In una CoPOVERTA'mmissione ove tutti rappresentavano qualche “parte” (per lo più “politica”) io ero stata indicata – non so da chi – per “rappresentare le donne”. Ovviamente questa compartimentalizzazione – o lottizzazione – era assurda sul piano tematico-conoscitivo. Perciò incominciai a studiare come una matta, per acquisire tutte le conoscenze possibili sulla questione della povertà. Ho imparato moltissimo da Gorrieri, con cui ebbi una collaborazione per me splendida sul piano umano. Ovviamente, mi guadagnai subito le riserve di altri sociologi che da tempo si occupavano di povertà e che mi consideravano, in parte a ragione, una sorta di parvenu, se non una intrusa. L’interesse poi è continuato, non solo perché ho fatto parte anche di  successive Commissioni (fino a presiederne una) e anche dell’Osservatorio Europeo sulla esclusione sociale, ma perché la questione della povertà è diventato per me un oggetto vero e proprio di ricerca.

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