#2/2015 – BIANCA BECCALLI con Sabrina Perra

Queste osservazioni fanno scattare un immediato confronto con la situazione attuale in cui, al di là dei programmi di mobilità disponibili per studenti e dottorandi, c’è una rivalutazione dei legami personali, soprattutto per noi italiani…

La lettera seria di presentazione del mondo anglosassone è una lettera sincera, che non si mostra al candidato. Di quest’ultimo si fa un profilo credibile in cui si dichiarano anche i limiti. Si usano dei “nonostante” che aiutano a definire una figura precisa di quella persona, anche sotto il profilo caratteriale, della personalità. Per questo si inseriscono anche informazioni che potrebbero risultare sciocche in quel contesto (come le attività sportive preferite), che oggi fanno parte di un quadro della persona in un contesto di diversity management e pari opportunità. Per un datore di lavoro è importante cogliere caratteristiche del candidato che non sono necessariamente di merito, ma anche di affinità. Questo sistema, seppure piuttosto artigianale, dava luogo ad un giudizio molto più sofisticato di quello che viene fuori oggi nella forma della attuale “valutazione”. Si tratta infatti di un giudizio prodotto da un paradigma unico che non tiene conto delle diversità di ciascuno.

Sempre su questo tema, nella costruzione della comunità sociologica-accademica italiana, quali sono stati secondo te i passaggi centrali, anche nel reclutamento?

 
C’è stato un passaggio in cui si è manifestata una differenza dei contenuti e delle modalità di espressione. Parlavamo prima del rapporto tra marxismo e sociologia, tra gli anni ‘60 e ‘70. Come dice Goffredo Fofi, per la politica “il ‘68 è stato breve”. PIZZORNO Anche per la sociologia, il ’68, inteso come nuovo interesse di ricerca dei temi emersi negli anni ‘50, ovvero l’interesse alla comprensione della società in mutamento, è stato canalizzato, a mio avviso, in categorie marxiste poco elaborate. Penso, ad esempio, agli studi sulla sociologia della classe operaia dove c’è stato ben poco con l’eccezione dell’importante opera diretta da Pizzorno sul “ciclo di lotte”[13], che faceva riferimento alle categorie della costituzione dell’identità di classe, intesa nella sua dimensione collettiva. La gran parte della sociologia “marxistizzante”, ovvero influenzata dalla sinistra, si è rivolta verso studi strutturali, per esempio analisi del mercato del lavoro, più che verso studi sociologici.
Questa tendenza si è rafforzata, negli anni ‘70, quando negli studi sulle relazioni industriali lotte-operaie-sindacato-italia-1968-1972-c498dc81-d859-4e6e-956c-4395c901f838i sociologi, affascinati dal modello più tipico degli economisti e dei giuslavoristi, si sono spostati a studiare il neocorporativismo, lasciando perdere la fabbrica e la sociologia della vita quotidiana del lavoro. Allo stesso modo si è lasciata perdere la comunità, la sociologia dei consumi, dei modi di vita. In qualche modo quindi, la sfida con il marxismo sul rapporto tra “classe in sé” e  “classe per sé”  non è stata messa più a tema dalla sociologia degli anni ‘70. Negli anni ‘80, poi, ha cominciato a svilupparsi la tematica dei nuovi movimenti sociali e qui si è arrivati al paradosso opposto, nel senso che i nuovi movimenti sociali (particolarmente studiati in Italia da Alberto Melucci, che riprendeva Touraine), ha però perso di vista il rapporto tra classe in sé” e  “classe per sé” : i movimenti erano tutto ciò che si mobilita. Qui il discorso si complica perché introduce il concetto di “posta in gioco” che è centrale nel discorso di Touraine, ma non trova spazi nella versione italiana della teoria dei nuovi movimenti sociali.

thompsonQuesta è la mia visioHOBSBAWMne del principale spostamento della sociologia italiana. Io peraltro ancora desidero partecipare agli studi sulla costruzione della “classe per sé” partendo dalle condizioni strutturali da cui la classe per sé si origina, si costituisce. In questo senso c’è una superiorità dell’esperienza sociologica inglese che per certi aspetti è stata più compiuta di quella francese. Nell’esperienza inglese, prima ancora nella storia socialMARSHALLe, come nel caso di Edward Palmer Thompson ed Eric Hobsbawn, che nella sociologia, come nelle opere di Thomas Humphrey Marshall. Per altri versi penso poi alla Francia, che in modi differenti e senza la solidità della ricerca inglese di storia sociale, ha prodotto importanti risultati: touraine wieviorkabasti guardare alla stessa scuola di Touraine, a Michel Wieviorka e al suo lavoro sul razzismo, e ai tanti studi comparati promossi dall’ Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Dunque in Italia, non trovo né l’esperienza della storia sociale inglese, né la sociologia dei movimenti francesi. Lo stesso Melucci, pure molto apprezzato in Italia prima della sua prematura scomparsa, non ha avuto il tempo di segnare un solco, di costruire una vera e propria scuola.

Quest’andamento della sociologia italiana può dipendere anche dalla conversione che essa ha fatto verso una certa matrice weberiana? Penso, ad esempio, agli studi sulla mobilità sociale, che hanno spostato il focus dall’originaria attenzione al marxismo…

the affluent workergoldthorpeGuarda Lockwood e Goldthorpe: hai una matrice comune tra maestro e allievo alla quale segue una netta divisione, tanto che il secondo diverrà il teorico della Rational Action Theory come teoria paradigmatica della sociologia del XXI secolo, separandosi dal primo, che voleva porre il problema della soggettività studiandolo il ricorso ad una metodologia tradizionale qual’era la survey. Alla critica della teoria dell’azione razionale Pizzorno ha dedicato molte delle sue energie, attaccandola però da un punto di vista logico, più che empirico ed epistemologico, mentre io ritengo che vada attaccata sul suo stesso terreno, quello degli economisti, con un confronto di paradigmi in cui si contrappone il paradigma dell’utilità ad altri paradigmi, come quello sociologico.

John Goldthorpe ha dato l’avvio ad una valorizzazione dell’analisi quantitativa che meglio si adatta al paradigma dell’azione razionale ed è standardizzabile: da lì in poi si consolida la distanza tra le metodologie quantitative e qualitative, che ancora oggi sono profondamente distanti e ostili. Invece, a mio avviso, la questione centrale è individuare il problema della ricerca: a seconda del problema può andare bene l’indagine quantitativa, oppure l’indagine etnografica o l’osservazione partecipante. Si tratta di contrapposizioni fasulle…

In un certo senso anche la metodologia dell’inchiesta era anticipatrice di un altro tipo di indagine messa a punto da Touraine, dove nell’interazione tra ricercatore e ricercati si sviluppa una trama di ricerca dell’identità, quasi della verità che assomiglia ad un rapporto di psicoterapia. Ricordo che Touraine usava l’etouraine 3spressione “conversion sociologique”, in cui l’osservatore, avendo formato due gruppi (uno di osservazione e uno di controllo) interagendo con l’oggetto-soggetto ricercato arriva a farsi dire dal soggetto chi lui è. Riesce anche a produrre dei meccanismi di identificazione, per cui “chi lui è” diviene quasi un meccanismo di formazione e riconoscimento della propria identità. Questo è molto diverso dal rispetto generico per l’oggetto di ricerca, usato anche in metodologie precedenti, quantitative e qualitative, e impone, in quanto parte dell’etica professionale del sociologo, che si debbano  “restituire” i risultati della ricerca ai soggetti che sono stati direttamente coinvolti.

L’inchiesta che tu hai sperimentato aveva dunque anche questa dimensione…  

Certamente si, tanto che i gruppi degli “inchiestati” divenivano spesso dei militanti o sviluppavano relazioni amicali, affettive con i loro intervistatori.  Bisogna tenere in conto il fatto che questi operavano negli anni ‘60, in un periodo di transizione del sindacalismo, in particolare rispetto ai lavoratori. Si tratta di un periodo di non comunicazione e quindi l’inchiesta era anche un modo per comunicare con quelli che oramai non si raggiungevano più perché diversi dagli operai di una volta. Erano i nuovi operai. InNon si affitta ai meridionali questo caso erano operai comuni di origine agricola, meridionale che non erano sindacalizzati, molto diversi dall’operaio di mestiere, vecchio tipo e comunista, di cui quasi si sapeva l’indirizzo, questi nuovi erano sconosciuti.Era l’epoca in cui a Torino c’era l’avviso sulle case “Non si affitta a meridionali!”, come narra un bel libro di Fofi…

Posted in Interviste, precedenti.