#4/2014 – GUIDO BAGLIONI con Serafino Negrelli

 Come vive l’esperienza sindacale e il mondo del lavoro dagli anni ‘80 in poi, quando si chiude la fase ricca e favorevole del dopoguerra?

Sono stato uno dei primi a capire che quella fase era quasi alla fine e si poneva il problema della compatibilità fra le conquiste (compreso il balzo del welfare) e le realtà economiche concrete. Lo testimonia un mio piccolo libro dei primi anni ’80, dove in merito al ruolo del sindacato alla parola “potere” affiancavo quella di “responsabilità”, termine con implicazioni rilevanti, allora generalmente ignorate[13].

BAGLIONI_05Nel frattempo, seguivo l’evoluzione delle relazioni sociali e sindacali con l’idea di trovare punti di equilibrio dinamico fra il mantenimento della forza sindacale e le necessità di uno sviluppo con maggiore produttività. Ricordo due aspetti rilevanti: il ridimensionamento graduale della scala mobile e le alterne vicende del metodo concertativo[14].

Negli stessi anni approfondisce il suo interesse ed impegno per il tema della partecipazione dei lavoratori nell’impresa…

Si trattava di un tema classico nelle impostazioni non antagonistiche (queste ultime, ormai decisamente superate). Pensavo che la contrattazione può andare oltre il suo terreno normale, con l’aggiunta dello spirito e degli istituti partecipativi. In argomento, si sentivano spesso tesi infondate o sbagliate (come quella di pensare all’impresa partecipativa fondata sulla democrazia decisionale). C’era, e c’è tuttora, una esperienza corposa e resistente, che è la codeterminazione tedesca.

Per un lungo periodo ho lavorato per sistemare le forme, le manifestazioni, i nodi critici del fenomeno[15], approfondendo il tema, anche con i casi italiani di partecipazione[16], e ricerche empiriche[17]. Anche per questo versante dei miei interessi sono partito da solo; utilizzando, fra l’altro, la mia presenza di 15 anni nel Comitato esecutivo di una grande banca popolare, luogo dove si vedono in concreto luci e ombre. Altre cose sono state fatte in gruppo, diverse delle quali hanno dato vita a pubblicazioni in riviste e volumi[18].

Con la nomina a professore emerito dell’Università di Milano Bicocca, alla maturazione della pensione, quanto spazio ha voluto dedicare ancora al lavoro di studioso?

Pur non sapendo allora quanto il cammino sarebbe stato lungo, ho coniugato una notevole attività, seppure tra qualche angoscia… E’ inutile nasconderlo: il lavoro è un elemento, insieme agli affetti della famiglia e degli amici, che mi tiene su e mi assorbe. Mi assorbe perché la ricerca alla mia età, almeno per me, è una ricerca più profonda rispetto a quella svolta precedentemente. A parte gli anni in cui si scriveva anche per la carriera (problema che da molto presto non mi ha riguardato), ho avuto il privilegio di ottener una cattedra universitaria, un posto sicuro, anche discretamente pagato, grazie al quale serenamente potermi dedicare a ciò che mi interessava. Però in questa nuova fase che sto vivendo riconosco due aspetti inediti, che non ricordo nel passato, cresciuti via via e diventati per me molto importanti.

Primo, penso a quello che sto studiando e scrivendo anche quando non sono seduto al tavolino, cosa che da giovane non mi accadeva (da giovane dicevo: “Adesso ho chiuso, basta!”, e non ci pensavo più fino al mattino dopo; o ancora, i quindici giorni di riposo d’estate erano di assoluto riposo… adesso no, le cose mi vengono in mente nei momenti più disparati!). Secondo, mentre in passato cercavo di scrivere in maniera ordinata in discreto italiano, facevo leggere le cose agli amici e, una volta finito il pezzo, lo consegnavo in modo definitivo alla signora Vaghi (che tengo a ricordare, perché per oltre 40 anni è stata la mia bravissima dattilografa), adesso, invece, continuo a fare redazioni che cambiano di continuo, che ricontrollo io stesso, correggendo gli aspetti stilistici e non solo…

A partire dal nuovo secolo, è tornato a scrivere sull’azione sindacale, con libri anche molto importanti per il dibattito nel nostro Paese.

Sì, mi interessava analizzare e ricostruire complessivamente il percorso dell’esperienza sindacale e delle tutele del lavoro nel secondo dopoguerra, anche con un approccio comparato tra Italia ed Europa, senza escludere peraltro elementi autobiografici e riferimenti più generali alle scienze sociali e alla letteratura sociologica.

L'ACCERCHIAMENTOQuesto periodo di riflessione la vede affrontare il tema delle nuove sfide che concorrenza e flessibilità comportano per la tutela del lavoro e dà origine al bel libro intitolato “L’accerchiamento”[19]. Quali erano gli obiettivi e la conclusione alla quale è giunto, ovvero come si può tutelare il lavoro nel nuovo contesto di capitalismo globale?

L’Italia è ormai entrata in una fase di bassa crescita e di bassa produttività. Nel libro parto dalle quattro principali manifestazioni all’origine della riduzione delle tutele del lavoro. Innanzitutto, il ridimensionamento dell’azione sindacale (ovvero, più bassa sindacalizzazione; dinamica salariale più ridotta, contrattazione collettiva e conflittualità molto più contenute). Quindi, a differenza del trentennio post 1945, dagli anni ’80 si assiste ad un ripiegamento del lavoro rispetto alle domande e alle pressioni dell’economia e dell’impresa, oltre che per  l’andamento dei conti pubblici. Si entra così in una nuova fase di tutela difensiva, almeno fino al 2007, con governi che tendono a contenere le domande salariali e di welfare. Inoltre, la globalizzazione che produce abbondanza di lavoro e mobilità. La mia tesi al riguardo è che nel nuovo contesto globalizzato insorgono altre e più corpose questioni sociali: la povertà, la disoccupazione, l’invecchiamento, la solitudine, i problemi scolastici, il sapere scientifico, la conoscenza, ecc. Il problema sociale numero uno non è dunque più il rapporto di lavoro, il rapporto tra capitale e lavoro.

Siamo quindi di fronte ad una riduzione dell’azione sindacale. Si può parlare di una riduzione, anziché di vero e proprio declino, almeno per tre ragioni fondamentali: se il sindacato ha una funzione di utilità sociale, di tutela, di migliore equità, questa sua funzione non è venuta meno; il sindacato, soprattutto in Europa e nei paesi occidentali, è ancora un’organizzazione piuttosto rilevante, mantiene posizioni significative nel pubblico impiego e nei settori di pubblica utilità; nei paesi dove è arrivato lo sviluppo, nel mondo asiatico, il sindacato prende piede e si presenta anche nei paesi con regimi dittatoriali, come in Cina. Ecco perché si può parlare di riduzione e non proprio di declino.

In seguito al crollo del sistema sovietico e alle nuove tendenze di globalizzazione del capitalismo, permangono differenze strategiche tra i sindacati italiani? La mancanza di unità sindacale costituisce ancora un fattore di indebolimento?

Sì, ma ormai non si tratta di una novità: da un lato, c’è chi continua a sostenere la centralità delle relazioni industriali in senso lato e la priorità del negoziato; su un altro versante si pone chi ritiene che la tutela del lavoro riesce bene solo se c’è una sponda politica favorevole.

L’azione “progressiva” caratterizza solitamente la strategia di un sindacato non ideologico che chiede “di più, sempre di più”, trovandosi in un contesto socio-economico che migliora. L’azione “difensiva”, più diffusa nella fase attuale, è tipica di un sindacato che cerca di ridurre i danni, muovendosi di più a livello aziendale. Infine, l’azione “adattiva” prevale quando c’è una componente attiva, come nel caso classico della Germania, dove un sindacato forte è in grado di gestire una prolungata tregua salariale in cambio di occupazione. La concession bargaining esprime una logica negoziale orientata a negoziare tutto ciò che è negoziabile: attualmente è la migliore possibile, almeno dove esiste una realtà confederale (che manca invece nei paesi anglosassoni).

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