#2/2014 – GIAN PRIMO CELLA con Roberto Pedersini

Poi ci sono i luoghi: quanto hanno contato i rapporti con altri paesi o le esperienze all’estero?

Innanzitutto va detta una cosa: per le persone della mia generazione la Francia è stata sicuramente il paese di riferimento dal punto di vista intellettuale. Sia in generale, sia per quanto riguarda la Sociologia, non c’è dubbio. Ho conosciuto e frequentato grandi sociologi francesi, come Alain Touraine, Michel Crozier, Jean-Daniel Reynaud, Serge Mallet. Poi c’era un’attrazione intellettuale verso la Francia… aggiungiamo che il francese è l’unica lingua che conoscevo bene. Il primo libro di Sociologia del lavoro sul quale mi sono formato è stato il trattato in due volumi di Georges Friedmann e Pierre Naville. I nostri grandi punti di riferimento erano proprio Friedmann e poi Touraine; si amai 68ndava spesso a Parigi, c’erano contatti… Per altri è stato forse più importante il rapporto con gli Stati Uniti; per alcuni, ma non di solito per i sociologi, la Germania. Se però pensiamo anche all’esperienza del Sessantotto e alla mobilitazione studentesca, il grande punto di riferimento era il maggio francese.

Negli Stati Uniti la mia esperienza forse più lunga, interessante e divertente è stata quando Tiziano Treu ed io abbiamo portato per un mese un gruppo di sindacalisti italiani in giro per il paese a visitare fabbriche, local [2] e federazioni sindacali e anche istituti di ricerca, nel settembre del 1981, grazie ad un finanziamento del German Marshall Fund. Il sindacalismo americano mi ha sempre appassionato e in quell’occasione ho potuto capire meglio cos’era e come funzionava. In Gran Bretagna, invece, sono stato nell’estate del 1976 a Oxford con mia moglie e le bambine, per la ricerca sugli scioperi. L’idea di una ricerca storica e soprattutto quantitativa sugli scioperi era stata mia. Ho messo assieme un gruppo di amici che si occupavano dei vari paesi e io mi sono dedicato al caso della Gran Bretagna, studiando il movimento sindacale inglese, i cicli degli scioperi e effeGian Primo Cella, Jeremy Waddington e Otto Jacobi davanti alla sede del Partito Socialdemocratico norvegese, Oslo 1998tti sull’economia, mentre gli altri si sono occupati di Stati Uniti, Germania, Francia e Italia. La ricerca era finanziata dal CNR e io sono stato ospite quell’estate del Nuffield College per condurre i miei studi. Secondo me, il saggio conclusivo e interpretativo del volume che raccoglie i risultati della ricerca è la cosa più rilevante che ho scritto.

L’America Latina è un’irruzione nella mia vita che dura una decina di anni, grosso modo dal 1985 al 1995. Come spesso accade, anche nella mia vita molte cose iniziano in modo imprevisto, sono “occasioni”. Penso che le occasioni siano importanti, non credo nei percorsi sistematici, almeno per quanto mi riguarda… Mi ricordo che un giorno di settembre del 1985, mi telefona a casa un sindacalista che faceva formazione, uno bravo che avevo conosciuto ma che però non identificavo bene, il quale mi disse: “Ma scusa Cella, saresti disposto il mese prossimo a venire a fare dei seminari in Costa Rica? Abbiamo un progetto finanziato dall’Unione Europea e dalla cooperazione italiana per la formazione di sindacalisti, anche a livello di fabbrica, in America Centrale e lo facciamo il corso in Costa Rica”. Gli risposi di richiamarmi dopo un’ora e più tardi accettai. Così è iniziata un’esperienza che ha avuto ricadute importanti: primo, ho studiato lo spagnolo; secondo, ho apprezzato e goduto della letteratura latino americana che a me non piaceva e che comunque non sentivo mia (non dico che bisogna leggerla in America Latina, ma bisogna conoscere l’America Latina per apprezzarla, altrimenti ci si ferma a Cent’anni di solitudine); terzo, è stata un’occasione che mi ha portato in Costa Rica, Panama, Brasile, Argentina, Cile, consentendomi di conoscere soprattutto le persone (usando una frase un po’ enfatica potrei riassumere: “Turismo poco, gente conosciuta tanta!”). Il Brasile ha rappresentato l’esperienza più ricca intellettualmente, perché allora era anche il mondo culturalmente più ricco, non solo dal punto di vista letterario, ma soprattutto per le scienze sociali. Così da una vicenda nata per caso mi sono dedicato ad alcuni temi che mi hanno appassionato, scrivendo abbastanza, ma senza utilizzare tutto (di fatto, è uscito solo un articolo su Stato e mercato[3]). Poi, ad un certo punto, queste esperienze di cooperazione sono finite: sono andato altre volte in America Latina, ma senza un legame diretto con organizzazioni sindacali o con istituti di formazione. Ho sempre pensato che fosse un tema che si potesse seguire anche dall’esterno, ma di fatto l’ho poi abbandonato; può darsi che lo riprenda…

Quanto ti rimane delle sedi universitarie in cui è stato?

È rimasto un legame affettivo intenso con la Sardegna, anche dovuto alle relazioni personali. E poi c’è Trieste: non escludo che questo interesse per i confini sia arrivato da lì. Trieste, in fondo, mi ha lasciato dentro qualcosa da questo punto di vista. In ogni caso, posso dire di averne girate tante, e questo è stato fonte di arricchimento. Innanzitutto, sono sempre stato abbastanza attivo in queste sedi universitarie: ho sempre avuto responsabilità istituzionali, in certi casi anche ne avrei potuto assumerne di più alte. Mi sono sempre interessato, attivato, non sono mai stato un classico professore marginale, che viene e poi scappa e intanto si occulta. Perché molti di questi pendolari (e nella mia generazione ce n’erano tanti) arrivavano, facevano lezione e poi scappavano. Meno venivano impegnati meglio era, per loro. Invece, io sono sempre stato attivo, direi, nell’università e anche nei rapporti con le forze esterne.

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