#2/2014 – GIAN PRIMO CELLA con Roberto Pedersini

Come ricordi i primi tempi della tua formazione sociologica?

Alberoni curava molto anche la formazione degli assistenti. Mi ricordo che, proprio agli inizi, mi mise nelle mani due libri impegnativi: La struttura dell’azione sociale di Talcott Parsons e Teoria e struttura sociale di Robert K. Merton e mi disse: “Adesso, in un mese, mi fa trenta pagine su un volume e trenta pagine sull’altro”. Allora io mi misi a lavorare e feci una dispensa di una trentina di pagine sul testo di Parsons e un’altra della stessa dimensione su quello di Merton. Andai a portarle ad Alberoni e mi ricordo che le buttò nel cestino. Io rimasi allibito e lui mi disse: “Non crederà mica che a me servano queste cose? Devono servire a lei. Lei ne ha una copia? Bene, questo è importante” (solo che non le ho più ritrovate: mi piacerebbe averle, ma non le ho più ritrovate!). Alberoni era un po’ il lampo della genialità, allora. Ad un certo punto, dovevamo fare gli esami sul suo libro Consumi e società, che è forse il più bello che abbia scritto. Era un libro in cui incrociava sociologia e psicanalisi. Ad una riunione in Istituto, ci disse: “Voi non capite niente di psicanalisi, non riuscite a leggere e a capire il mio libro perché non capite niente di psicanalisi! Vi faccio fare un corso di psicanalisi dal mio amico Pier Francesco Galli.”, che era allora il più noto psicoterapeuta italiano. Allora accettammo. Non tutti, ma su undici o dodici che eravamo, accettammo in nove: andammo alla sede dell’Istituto di Galli, che era vicino alla Cattolica, con il nostro quadernetto degli appunti. Mi ricordo questa prima ora di silenzio… ad un certo punto, ruppi il silenzio e dissi: “Scusi, ma Alberoni ci ha detto che dobbiamo fare un corso di psicanalisi: noi siamo venuti per fare un corso di psicanalisi!”. Galli rispose: “Ah sì? Vi ha detto così?”. Di lì iniziò un’esperienza di psicoterapia di gruppo che durò due anni. Questo dal punto di vista formativo è stato eccezionale, straordinario, perché queste cose non si imparano, ma bisogna viverle; Alberoni aveva avuto l’intuizione di farci fare una formazione veramente efficace.

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Gian Primo Cella e Alessandro Pizzorno, Centro Studi Cisl, 2008Tutto quel periodo è stato importante, anche perché l’Istituto di Sociologia della Cattolica era un po’ il centro, il punto di riferimento per la Sociologia a Milano. Il mercoledì organizzavamo seminari a cui venivano anche illustri sociologi come Alessandro Pizzorno o Angelo Pagani. Venivano anche grandi sociologi dall’estero: mi ricordo un seminario bellissimo di Alvin Ward Gouldner, che aveva appena scritto il suo The Coming Crisis of Western Sociology. Era un ambiente molto vivo; alcuni colleghi sono indimenticabili, come Franco Rositi e altri, oltre a Bruno Manghi. In quegli anni, si andava verso il 1967, cominciammo ad attrarre a Sociologia anche transfughi da altre discipline, per esempio, dalla Filosofia. È interessante ricordare che tre colleghi filosofi, alcuni già assistenti in Filosofia alla Cattolica, vennero all’Istituto di Sociologia, cioè passarono alla Sociologia: prima di tutti Gian Enrico Rusconi, poi anche Chiara Saraceno e Alberto Melucci. Era un ambiente non solo vivace intellettualmente, ma che riusciva ad attirare all’Università Cattolica giovani studiosi non solo dall’ambiente milanese. E poi ci fu il momento del movimento studentesco…

gouldnerA tuo parere cosa spiega la capacità di attrazione che esercitava la disciplina sociologica sui giovani, e meno giovani, di allora?

Era un periodo felice per la Sociologia e all’interno della Sociologia forse, ad un certo punto, il campo di studi più à la page, che attraeva di più, era quello sul lavoro, gli operai, la fabbrica industriale. Pensiamo al 1968 e al 1969… Allora, dopo i primi contatti con il movimento studentesco alla Cattolica, scoprii le straordinarie opportunità pedagogiche offerte dalla Sociologia: quando facevamo i seminari per gli studenti universitari, per la formazione “politica” soi-disante degli studenti e del movimento studentesco, era come se avessimo una marcia in più. La Sociologia era uno straordinario strumento per fare capire il tipo di società, le trasformazioni sociali in cui questi giovani erano coinvolti… straordinario! Quando parlavi, capivi che gli studenti ti seguivano; capivi che quello che tu stavi studiando serviva. Mentre questo non valeva per altri colleghi, pure animati dalle migliore intenzioni e, in certi casi, destinati a diventare studiosi di altissimo profilo: filosofi, giuristi, economisti avevano più difficoltà dei sociologi…

Come mai? Cosa avevano in più i sociologi?

Avevano la capacità di parlare della società e delle relazioni sociali con un approccio che chiamerei scientifico, discutendo le trasformazioni che quei giovani stavano vivendo. Ecco era questo: non c’era un’imposizione dall’esterno, non si faceva ideologia. Si tentava di parlare delle trasformazioni e dei cambiamenti sociali di quegli anni. Questo spiega anche il grande boom della sociologia in quegli anni. Perché i giovani si orientavano verso la Sociologia? Perché la sociologia forniva chiavi interpretative o esplicative dei movimenti e dei cambiamenti nei quali erano coinvolti. Adesso non sembra più che ci sia ancora questo vantaggio della Sociologia, anche se personalmente credo che sia ancora così; però nessuno se ne accorge.

E adesso, verrebbe da chiedere, sono cambiati i giovani, sono cambiati i sociologi o è cambiata la società?

Sono cambiati i giovani, sono cambiati i sociologi ed è cambiata la società. In più, forse, c’è anche la concorrenza di altre discipline. Il fascino che ha oggi la Filosofia sui giovani non credo che l’avesse cinquant’anni fa. Oggi questo fascino è cresciuto, forse perché, in fondo, permette maggiormente di sognare. inoltre, secondo me, la Sociologia aveva questo fascino perché aveva una dimensione critica notevole. In taluni casi, c’era proprio il riferimento alla scuola di Francoforte, ma spesso l’aggettivo “critica” andava inteso in senso generico; questo affascinava… Secondo me, ad un certo punto, la Sociologia ha perso questo carattere e questa è una delle ragioni per cui ha smarrito parte del suo appeal  negli ambienti giovanili.

In questi primi anni, il tuo orientamento verso la carriera accademica era già consolidato?

Non ho mai avuto dubbi: pensavo che avrei fatto questo. Una volta superata una ovvia opposizione, da buon borghese, di mio padre, ritenevo che avrei fatto la carriera universitaria. L’unica cosa di cui mi pento è di non avere puntato maggiormente su una formazione all’estero. Negli Stati Uniti avevo molte possibilità, ma non volevo lasciare i miei genitori che erano anziani…

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